Etiopia/Un passo dopo l’altro
Al mattino, si mettono in cammino. Sono magri, ma le loro gambe hanno la forza di chi niente altro ha fatto che camminare. Strade di polvere. C’è un velo di polvere su tutta l’Etiopia. Solo al tempo delle piogge, il cielo ha una limpidezza sconosciuta in altre stagioni.
Un passo dopo l’altro. Per andare a casa, per il campo, per il mercato (al sabato, al paese, per comprare un pollo, per incontrarsi, per stare lì), per un presidio sanitario. Per nessuna ragione. Un passo dopo l’altro, con l’economia dei gesti. Se è possibile, se vi rifletti sopra. Senza un solo pensiero. Se non qualche vaghezza su un Dio lontano e verso il quale si ha devozione al di là del torti che non sai di aver ricevuto.

Poi, alle spalle, il rumore di un auto. Oramai lo conosci. E allora, ti giri, di fianco, una mezza rotazione. Sai che non si fermerà. Se fosse un piccolo bus, non hai il denaro per aggiungere il tuo sudore e il tuo respiro a quello di altri venti uomini e donne. Loro sono ricchi. E te sei uno che va a piedi. Però il gesto lo devi fare. Metti la mano come se fosse una coppa, il pollice ripiegato nell’incavo, le quattro dita tese, cerchi, perfino, di fare un sorriso colmo di speranza e desolazione. Agiti la mano in su e in giù. Per pochi secondi. A volte Dio ti ascolta. E in quel fuoristrada troppo grande, il posto per te c’è. Puoi rannicchiarti dietro. Puoi anche appenderti fuori. Puoi…
Una polvere ti investe, polvere sul polvere, entra nei denti, negli occhi, ricopre la faccia. Si deposita sulle sopracciglia. Ma è la stessa di ieri, dell’altro giorno, di un mese fa.
La nostra macchina ti passa accanto. E non si ferma. Non si è mai fermata.
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Dodici ore di strada. Fra Gheralta e Lalibela. Capocantieri cinesi. Hanno un casco giallo o grandi cappelli di paglia. Camicie chiare. Stanno in piedi su una roccia e guardano uomini-scalpellini che, roccia dopo roccia, danno forma alle pietre che saranno massicciata. Dicono che i cinesi abbiano già costruito oltre 70mila chilometri di strada asfaltate in Etiopia.
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Nirack è il primo paese della regione amhara. Le case diventano tucul, non ci sono più gli hedmo rettangolari e dalle pietre ben allineate dei tigrini. Gli amhara preferiscono le architetture rotonde.
A Nirack, la ‘sorgente dell’acqua’ (in lingua agaw, questo paese si chiama Abergele, non so perché gli abbiano cambiato di nome), facciamo sempre sosta. Il caffè è buono qui. Ma questa volta vengo distratto da un insegna storta (qua non piacciono i cartelli dritti): Photoprofessional…

E’ una stanza minuscola, un cubicolo polveroso, due metri per tre, divisi a mezzo. Dentro c’è Tsegai. Sta armeggiando attorno a un computer. Sta lavorando alla foto di un bambino intento a tagliare felice la torta di compleanno. Guardo con un sobbalzo di felicità Tsegai. Un fotografo a Narick….mi mostra la sua D60, incrostata di polvere. Ha una piccola stampante. Mi affaccio, con qualche fatica, non c’è spazio, oltre una parete di cartone: un metro per due, ecco la sala di posa, sfondo blu, due microlampade, un panchetto dove sedersi. Dieci birr, cinquanta centesimi, una fototessera. Mi emoziono. Fotografo Tsegai seduto sul suo panchetto. Poi lui fotografa me. E’ andato a prendersi la card in un cumulo di cenci.

Mi areno nella lingua. ‘Ho imparato da solo’, è tutto quello che vengo a sapere. Nati, poi, mi dirà: ‘Ci sono creativi, qui. Bravi’. Tsegai sorride.

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Mi piace molto Sokota, il capoluogo della gente agaw. Ci sono vecchie case italiane e negozi colmi di plastiche colorate. E’ ancor oggi un luogo ‘lontano’. Centrotrenta chilometri di strada per arrivare a Lalibela: almeno cinque/sei ore con un buon fuoristrada. I cinesi stanno costruendo la strada. Dicono che finiranno fra quattro anni.

A Sokota ritrovo Sennait. Un tempo faceva la cameriera al ristorante nel giardino del cinema. C’è il cinema a Sokota. Dentro un uomo magrissimo sta mostrando un video sull’agricoltura sostenibile a una piccola platea di contadini avvolti in shamma ingrigiti. C’è odore di sudore, di talla, la birra degli altopiani, e di burro chiarificato. Sennait, invece, è al sole. All’angolo della piazza. Ora offre caffè tradizionale nel suo basso banchetto. Un bel passo in avanti, un piccolo coraggio. Ha erbetta di plastica e piccoli frammenti di incenso. Si è perfino truccata. E’ gentile, Sennait. Il caffè non è molto buono.